sabato 27 novembre 2010

La sicurezza degli oggetti

In treno, mentre leggevo un articolo sul bivio di fronte al quale si trova la carriera 'politica' di Mara Carfagna, mi sono accorto di non avere indossato, per la fretta di partire, nessuno dei due miei amuleti: l'anello che porto da quasi 15 anni - e che ha impedito alla mia falange di svilupparsi sotto di lui - e il bracciale romano. La nudità della mano e del polso destro mi hanno provocato una sorta di brivido allo stomaco, molto simile al panico. Troppo importanti, troppi pieni di significato quegli oggetti perché lo loro assenza non porti con sé qualche omen funesto, ho pensato.
Poi però, inaspettatamente, con la stessa rapidità del brivido, una sorta di scossa sottile ha attraversato da parte a parte il mio cervello, collegando idealmente le orecchie. L'ho proprio visualizzata, come la linea di un encefalogramma o i parallelepipedi colorati che compongono l'immagine di un equalizzatore. C'era scritto: Dimentica.

Allora ho pensato che nel magma di questo periodo potesse essere anche quello un segno, ma un segno reale, disposto ad indicare la strada per liberarmi dalla schiavitù dei talismani, dalla "sicurezza degli oggetti", tanto per citare il bellissimo titolo di un romanzo. Un segno per liberarsi dal vincolo dei segni. Paradossale, in effetti.

Eppure, tutto sommato, questo paradosso è abbastanza rappresentativo del rapporto che ciascuno di noi, chi più chi meno, intrattiene con gli oggetti: se uno ci pensa, la concretezza caratteriale di una persona è quasi sempre inversamente proporzionale alla necessità che questa persona ha di 'aggrapparsi' al mondo dell'esperienza sensibile. Al fenomeno, per dirla con Kant.
Se invece sei uno che nel suo cervello decompone anche il più minimo dei granelli di cui è fatta l'esistenza, più di frequente sarai portato a caricare gli oggetti di un valore esorbitante. La gamma espressiva di soggetti del genere è varia: c'è chi diventa pazzo perché scova un segno sull'intonaco del salotto, o chi pensa che se non indosserà 'le mutande portafortuna' al colloquio sicuramente rimarrà disoccupato.
Ma in fondo sono banalità e chissà dove sta il vero. Una cosa però è certa: le mie mutande portafortuna ormai hanno l'elastico lento e io sono ancora senza lavoro.

lunedì 19 luglio 2010

PerEnne (To N.)


El horizonte es tu cuerpo.
El horizonte es mi alma.
Llego a tu fin: más arena.
Llegas a mi fin: más agua.
(Tierra Y mar, J. R. Jiménez)

giovedì 3 giugno 2010

Frequency

24 ore sull'orlo della commozione, come acqua che freme dentro un cristallo, nell'attesa della goccia definitiva, liberatoria.

Esistono momenti della vita in cui vieni inondato da un fascio di emozioni indistinte, fortissime, come se all'improvviso fossi in pieno contatto con le persone che popolano la tua vita, persino quelle che non conosci, che incroci per strada solo per un istante. Oggi è stato uno di quei giorni. I giorni della frequenza, li chiamo io. Una sensazione talmente strana, una contrazione alla bocca dello stomaco, ma non dolorosa, che irradia un brivido in tutto il corpo e ti lascia lievemente intontito: all'improvviso hai perfettamente chiaro, o almeno ti pare, come possa sentirsi l'uno o l'altro personaggio della tua vita, senti di poter calzare i suoi panni a pennello, li senti sfiorare la tua pelle; e vedi dai suoi occhi, senti dalle sue orecchie, respiri la sua aria o ti si spezza il fiato nel suo affanno. E fai una scoperta bellissima: la comprensione, e dopo la comprensione trovi la solidarietà. E il perdono.

Nell'arco di queste 24 ore mi sono capitate due cose, come se le avessi attirate.

1. Mentre me ne andavo dal cimitero, depositato al suo posto un fiore che somiglia al sole, una vecchietta mi ha fatto cenno e con un sorriso maldestro si è avvicinata alla mia macchina: "Fa la salita lei? Ho camminato tutto il giorno e ho male alle gambe".
"Certo signora!", ho mentito.
"Sa, è che ho perso l'ultimo 'filobus' e mio marito è temporaneamente in ospedale".
"Ha fatto benissimo a chiedere".
"Veramente lo faccio sempre...", sorriso ammiccante da pupa del gangster.
Abbiamo condiviso giusto il tempo di scambiarci queste quattro battute, mi ha raccontato che suo marito la rimprovera per la sua faccia tosta ed è scesa, come una simpatica meteora. Quanta vitalità, purezza e fiducia nel prossimo! Nello spazio di un cambio di marcia dalla prima alla seconda la pupa del cimitero mi ha dipinto un sorriso sul volto che ancora adesso porto addosso.

2. Nel tardo pomeriggio poi, una persona del mio passato, che ho escisso dalla mia vita con una precisione chirurgica, mi ha scritto un messaggio: sentito, umile, sano; per onorare la ricorrenza che cade in questo giorno e che ho celebrato con il fiore.
"Ti voglio bene e ti abbraccio forte, ovunque tu sia. Sia splendido per il te il futuro, te lo auguro con tutto il cuore!"
"Auguro lo stesso a voi, certo di non sbagliare la previsione", ho risposto. L'ho fatto d'istinto e me ne sono stupito. E' che sono stato avvisato dalla contrazione del mio stomaco che le sue parole celavano qualcosa di potente, temibile, magnifico, più forte degli anni trascorsi, più forte di ogni giudizio, di ogni ostacolo. Tra breve sarà mamma, ho scoperto di lì a poco. Ma in fondo, mi chiedo, l'ho davvero scoperto? O non ero già su quella frequenza, ed era esattamente ciò che sentivo, ciò che mi ha fatto scrivere "voi"? Se non ho la certezza di questo, so però che le parole che hanno seguito la rivelazione, mie e sue, mi paiono ora, a rileggerle, foglie delicatissime, su cui trotterella qualche lacrima antica e salvifica. Non ce ne dicevamo da anni di così piene e dignitose.

Ecco, nei giorni della frequenza mi ricordo che il genere umano ha una speranza, che io ho una speranza. E per questi giorni ringrazio, anche se a volte li sento come una prigione, perché avrei voglia di non contemplare la dialettica, di essere refrattario, di difendermi dagli altri non capendo e di non farmi sempre disarmare dal buon senso (sì, staccato). Ma la bontà chiama bontà, mi hanno insegnato due meravigliose creature: non so se è vero, ma in questi giorni mi pare di non poter far altro che crederci.

martedì 25 maggio 2010

C(u)o(r)dice linguistico

Ieri stavo facendo uno dei miei approfondimenti finti. Gli approfondimenti finti sono gli approfondimenti del nuovo millennio, quelli asistematici per cui, se ti viene in mente una cosa che conosci solo per sentito dire o con la quale hai appena un po' di dimestichezza, pensi bene di scandagliarla meglio digitando qualche parola su google (accontentandoti ovviamente del primo risultato), invece di alzare il culo (sì, culo!) e cercare, che so: la bibliografia fondamentale in merito? Magari un Bignami? Almeno un libro con le figure! Insomma, qualcosa che abbia se non altro l'eleganza dignitosa della stampa su carta.

Ma non è questa la sede per discutere della tuttologia telematica imperante e della mia capacità, allenata da anni - questa sì sistematicamente - di intortare gli interlocutori culturalmente più deboli di me raccontandogli le quattro cose che so di un argomento mentre gli faccio credere che stia omettendo, per non tediarli, tutte gli altri aspetti della questione, che appunto io per primo ignoro. Si tratta del talento da paraculo declinato culturalmente (fenomeno, a dire il vero, su larga scala terrificante e pernicioso, ma nessuno è perfetto) e magari ne parlerò in seguito.

Il mio approfondimento finto di ieri riguardava una branca della filosofia: la logica. Riporto di seguito l'ultima parte di quanto ho letto, l'unica che io abbia seguito con una certa attenzione (leggere in modo disattento quella che chiaramente è già la versione liofilizzata di un testo ha veramente del patologico, lo ammetto):
Maggiore è infatti la profondità con cui abbiamo compreso una determinata parola od un concetto e maggiore è la probabilità che tale nostra comprensione comprenda in sé anche il significato che un'altra persona dà a quella stessa parola o concetto. Per questo motivo maggiore è la nostra consapevolezza e maggiore è la nostra capacità di comprendere il pensiero altrui.
Oltre al sospetto, sempre più concreto parola dopo parola, di conoscere già la tematica senza averne ravvivato debitamente la memoria in questi anni: la mia laurea è pericolosamente connessa con il tema, la lettura di queste righe ha prodotto alcune riflessioni, ben più profonde (ma non so se profonde in assoluto, ovviamente) dello stesso originario finto approfondimento.

- La lingua è un codice, e ci siamo.
- Per comunicare occorre che il codice sia condiviso dagli interlocutori, ok.
- Esiste un codice linguistico dell'amore? Sì.
- Cosa intendo? Non parlo dei nomignoli (tesoro, cucciolo, honey, amo'... tanto per fare una climax varia e ascendente per bruttezza), parlo proprio di una lingua nella lingua, i cui rimandi siano talmente tanti ed articolati che le due persone coinvolte potrebbero parlarsi per ore con vocaboli, verbi, metafore del tutto astrusi per gli altri eppure così estremamente espressivi per loro. Lo so, è banale... ma non è meraviglioso? Non è meraviglioso che una parola sciocca o addirittura una semplice sillaba, un fonema, possano contenere tanta energia da comprendere in sé anche il significato che l'altra persona - lei e solo lei - dà a quella stessa parola o concetto? Cosa se non l'amore è espresso dalla capacità di due persone di dare ad una parola lo stesso identico significato? L'amore è creativo, l'amore semantizza anche l'insignificante. O, più in generale, l'amore è espresso dall'avere naturalmente fiducia che l'altro stia dando a qualcosa il tuo stesso senso. Proseguo:
Ora, sebbene quindi è probabile che si dia all'interno di un gruppo linguistico una definizione simile ad una data parola (difficilmente identica dato che ad ogni parola ognuno associa una determinata carica emotiva o sentimento puro che può essere diverso da persona a persona), la profondità con cui tale parola viene compresa dentro di sé non dipende da un fattore

linguistico ma da un fattore intellettuale. E l'intelligenza di una persona è direttamente proporzionale alla sua consapevolezza spirituale, e cioè alla quantità di Spirito che ha in sé.
Da qui ancora due deduzioni:
- Mi chiedo sempre dove risieda per me l'amore. Per me il fondamento dell'amore risiede nelle nostre parole, nel codice che decidiamo di costruire insieme, nel legare ad una parola, quale che sia, la stessa carica emotiva, lo stesso sentimento puro dell'altro.
- Se chi parla bene pensa bene, se le parole sono il nostro pensiero, se l'intelligenza di una persona è direttamente proporzionale alla sua consapevolezza spirituale, e cioè alla quantità di Spirito che ha in sé, allora per me non solo l'amore è intelligente, ma
l'amore è avere la stessa quantità di spirito dentro.

mercoledì 12 maggio 2010

Vindicem indicem

Si tratta di disciplina. Ogni evento, o non evento, in effetti è una lezione: ho trascorso un mese appuntando sul mio taccuino cerebrale avvenimenti, frasi, riflessioni che avrei potuto utilizzare nel blog, ma poi, come troppo spesso mi accade, li ho lasciati andare, ho permesso che lentamente sfumassero, perdendo il loro sapore.
Il saper scrivere, in effetti, è proprio questo: saper fissare. Allora ho deciso di fissare il fatto che sono incapace di fissare. Mi pare un buon inizio. E per punirmi fino in fondo, ho deciso anche di elencare le idee via via abortite, ben sapendo che solo a vederle scarnamente enumerate, per di più in ritardo, soffrirò di un dolore educativo, per dirla con Eschilo. Con questo non dico che sarebbero stati pezzi d'autore se li avessi elaborati, ma la trascrizione immediata certo avrebbe loro giovato.

- La Maddelena di Donatello, i suoi piedi, riflessioni conseguenti.
- La messa con spiritual annesso, nella quale sono capitato per caso, a New York.
- La metro di NYU.
- Il soccombente.
- Riscoprirmi capace di disegnare come da bambino, con la stessa creatività.
- La festa della mamma.
- L'incontro con la cassiera mia parente, le diverse vie di una famiglia, Iris.

Per finire, torturerò me stesso con la consapevolezza ossessionante che alcune degli spunti che ho disatteso sono talmente rarefatti che non posso più nemmeno inserirli in questo doloroso indice.

mercoledì 7 aprile 2010

Acqua sì cura

Una volta ho letto sulla settimana enigmistica che "nelle disgrazie dei nostri amici c'è sempre qualcosa che non ci dispiace". Me ne ricordo bene perché ho pensato che, in fin dei conti, questa frase era vera: del resto da tanti anni ormai una vocina interiore mi avverte di ogni piega di meschinità nascosta nel mondo che mi circonda. Si chiama cinismo, e la odio. La odio perché uccide ogni cosa, visto che lei stessa è il cadavere dell'entusiasmo e vuole che tutto sia grigio e appassito come lei, oppure vuole che tutto sia perfetto, asettico, senza vita allo stesso modo. E' difficile conviverci, tenerla a bada, a volte sembra una eterna recita, uno sforzo che ti fa arrivare stremato alla sera senza che tu abbia mosso la più piccola fibra di un muscolo; è un disco rotto che non puoi fermare perché sta sul giradischi del vicino.

Ma ci sono volte, ci sono volte che io ti leggo, ti vedo, ti sento e provo una gioia tale che lo stomaco mi si contrae, sono certo che arrossisca di rabbia e commozione, come se volesse prendermi a pugni e dirmi "ridi, sogna, vivi!". In quei momenti la vita spazza via ogni cosa, perché mi accorgo di quanto sia potente il sentimento che provo quando vedo o solo immagino la tua gioia. E' una gioia alla seconda, una iniezione di sangue caldo, sano, vitaminico.

Se le nostre digrazie ci derubano e in quelle altrui c'è qualcosa che ci lascia impassibili, è nelle soddisfazioni di chi amiamo che c'è il nostro vero risarcimento. Tu sei il mio risarcimento.

La felicità è nata gemella. (Lord Byron)

sabato 3 aprile 2010

Iris e quadrifogli

Nella mia casa oggi ci sono degli Iris. Li ho scovati portando in giro i cani due mattine fa, nella campagna.
Rodrigo si era spinto fino ai confini del parco ‘rincorrendo’ il bastone impigliato in diagonale nella sua pettorina e sono stato costretto a correre da lui per porre fine ad un gioco dai pericolosi risvolti suicidiari. In quel momento mi sono accorto della presenza degli iris. Si trovavano dietro un cespuglio abbastanza alto, suddivisi in tre gruppi, tre eleganti macchie bianche, appena sotto l’inizio della discesa. Ma l’iris è una pianta spontanea? È una pianta robusta? Di sicuro è una pianta bellissima, per i petali sensuali, complessi e precisi, per lo stelo gonfio d’acqua e per la sua capacità di far sbocciare un fiore dai resti di un altro appassito.
Mia nonna si chiama Iris e anche lei mi piace molto.


Ho trascorso gran parte dell’infanzia setacciando il parco sotto casa alla ricerca di un quadrifoglio. Ho identificato centinaia di margherite, nontiscordardime a mazzi, alcune giunchiglie, ma non ho mai trovato un quadrifoglio. Alla fine sono persino arrivato a mentire a me stesso: prendevo un trifoglio e dividevo in due uno dei suoi tre petali, fingendo che andasse bene. Ma non era lo stesso. È che mi è sempre piaciuta l’idea che qualcosa di speciale si nascondesse nella normalità, qualcosa di tanto straordinario da passare inosservato, da richiedere uno sforzo in più. È per questo che imbattermi negli iris mi ha colpito così tanto: decine e decine di volte io e i miei cani abbiamo passeggiato svagati su quel prato, senza accorgerci che gli iris, anche loro distrattamente, stavano ad aspettarci.
Una cosa che invece, da piccolo, ho sempre faticato a comprendere è perché per regalare dei fiori occorresse necessariamente reciderli. Quando con mio padre uscivamo la domenica mattina, in primavera, e si decideva di portare un mazzolino di fiori a mia madre come ringraziamento per le ore spese a cucinare, vivevo sempre con un certo disgusto ecologista il pluri-floricidio; pertanto, grazie ad una improvvisata operazione da ‘giardinaggio senza frontiere’ gli iris che ora sono qui a casa sono ancora attaccati al loro bulbo, che ho scoperto essere particolarmente grande, turgido e vitale. Anche in questo mi ricordano mia nonna, in effetti.
Mia nonna. Iris. I suoi commossi occhi nocciola (mi raccomando, ci tiene alla nuance), il naso intagliato, le orecchie lunghe ed eleganti, il collo bianco e i capelli nerissimi. Le cose che mi ha insegnato sono piccole tessere, imperfetti quadrati di colore attaccati sul muro del passato che, se guardati indietreggiando, compongono un mosaico abbagliante.
Oggi, a Roma, distante nel tempo e nello spazio, con questi iris ‘bulbo-muniti’ come testimoni, ho deciso di fermarle queste piccole lezioni di sensibilità, perché voglio coltivare la mia memoria buona, quella che fortifica e non logora. Ma prima, devo precisare che mia nonna si chiama Iris alle anagrafe, ma M-iris davanti a Dio: la M è un regalo della mia bisnonna, che temeva che Iris, il nome preferito di suo marito, fosse appartenuto ad un vecchio amore perduto. Romantico, no?

Ma non voglio indugiare ulteriormente e procedo con l'elenco, disordinato, dei memoranda. Grazie a Miris so:
-sbucciare l’arancia a forma di fiore
-piegare il tovagliolo in modo da formare un ventaglio da inserire nel bicchiere per le grandi occasioni
-utilizzare il suddetto tovagliolo per pulirmi la bocca, mai le mani: “se uno sa mangiare, le mani non si sporcano”
-badare a non fare macchie sulla tovaglia “ché poi non va via”
-cucire i bottoni “perché quando fai il militare ti serve”
-disegnare realisticamente piante e cavalli
-avere rispetto per le matite, facendo attenzione a non farle cadere “ché la graffite si spezza” e pensare sempre prima di disegnare qualcosa
-la frase della Boheme “mi chiamano Mimi, ma il mio nome è Lucia”
-fare i cappellini-origami di carta “che indossano i muratori” (mai visto nemmeno uno indossarli)
-piegare le buste a triangolo
-sdraiarmi a letto avendo cura di scostare il copriletto “che è più difficile da lavare”
-avere rispetto per gli oggetti e soprattutto, tenere in ordine i cassetti, prima che ogni altra cosa.

Dietro ognuno di questi piccoli doni quotidiani si nasconde un seme di quadrifoglio, in un prato che pareva fatto solo di dicondra. La lista è incompleta e nonna mi perdonerà, ma confido che, insistendo, molti altri semi rimarranno nel mio setaccio. Vi terrò informati.

domenica 28 marzo 2010

Oggi e soprattutto domani

Ho appena finito un libro. Bel modo di 'riqualificare' una domenica mattina cominciata troppo tardi. Il titolo è L'anno del pensiero magico e l'autrice è una magrissima giornalista e scrittrice americana: Joan Didion.
Mi era stato lungamente sconsigliato di leggere queste pagine senza pensarci prima, per la ragione che raccontano l'eleborazione, disarmante e sincera, di un lutto. Anche io ho avuto un lutto. Si trattava, ovviamente, di un amorevole tentativo di preservarmi da quello che la Didion definisce il vortice: una sorta di sottocategoria della madeleine proustiana, in virtù della quale un dettaglio, apperentemente irrelato con il tuo lutto, innesca una serie di associazioni mentali che ti risbattono in un attimo nella percezione inesorabile dell'assenza.
Tuttavia, più di ogni altra cosa, io credo che negli eventi ci sia una sorta di necessità, una predestinazione. Credo nei segnali. Per questa ragione, non è tanto per l'accorato consiglio che mi sia astenuto così a lungo dal leggere questo libro, quanto più perché aspettavo di sentire che era il momento giusto per farlo, il kairos, come avrebbero detto i Greci. Nel mio immaginario, la percezione del kairos non è necessariamente razionale e distanziata: semplicemente ti accorgi che qualcosa è successo, nella più totale aderenza di te stesso con te stesso, e che quel qualcosa non poteva accadere altrove, altrimenti e in un altro tempo, soprattutto.

Un mese fa, mentre cercavo un libro che mi tenesse compagnia durante un viaggio aereo, il volumetto della Didion è saltato fuori insieme con un paio di altri romanzi. Dapprima ho pensato che fosse 'giunta la sua ora', ma poi, considerate le 12 interminabili ore di volo, e, mai come in questo caso, schiavo dei segni, ho preferito un titolo che, quanto a scaramanzia, mi pareva davvero imbattibile: Non buttiamoci giù, di Nick Hornby. "Il suo turno è vicino, ma non è ancora arrivato", mi sono quindi detto, e ho lasciato L'anno del pensiero magico sulla scrivania.
Al mio ritorno a casa, mentre mi accorgevo che il libello era rimasto perfettamente ortogonale al bordo dello scrittoio vuoto, quasi fosse davvero una specie di libro di magia che aspetta solo qualcuno pronto ad aprirlo e intonare l'incantesimo, mi sono reso conto anche di un'altra cosa: contrariamente alle aspettative, Non buttiamoci giù aveva invece giaciuto, muto, sul fondo del mio bagaglio a mano per tutte le 24 ore di volo totali. Non buttiamoci giù non era stato il mio 'prossimo libro'.

Sto cercando di ricordarmi quante ore siano trascorse tra l'acquisizione di questa piccola consapevolezza e l'esatto momento in cui ho iniziato a leggere L'anno del pensiero magico, ma non mi riesce. Sembra una specie di sortilegio finalizzato a confondere la mia percezione del passato recente. O è come se il confine tra ciò che ho vissuto e ciò che ho letto sia diventato una specie di onda oceanica vista dall'alto, lunghissima, di cui non capisco la fine, l'inizio, l'estensione. Come se avesse sempre fatto parte di me. E mi rendo conto, in effetti, che in questi giorni di lettura appassionata, e, per la prima volta nella mia vita, priva di ansia, mi è risuonato in testa, come una radiazione di fondo, un epitaffio che avevo scritto per il mio lutto, ma avevo scartato con dispiacere: Come un'onda te ne vai, per tornare e ritornare sempre. Sono contento di non averlo scelto, ora. Ne sono felice perché quell'onda addolorata era diversa da quella che ho immaginato oggi, aveva in sé qualcosa di ossessivo, quasi dovesse certificare in eterno che non avrei dimenticato mai nulla: perché sarebbe stato un torto, un tradimento imperdonabile. Imbalsamare ogni cosa, ripeterla all'infinito. Non vivere.

Curiosamente (o forse no), del mio avvicinamento al libro, ricordo solo il momento in cui sono andato a cercare, come faccio sempre quando ne ho uno tra le mani, la dedica: Questo libro è per John e Quintana. Mi vengono i brividi a scriverla io, tanto è scabra, concreta, reale.
Dopo un lutto, in genere, si sbaglia tutto. Nella preoccupazione di 'onorare la memoria' di qualcuno, si pensa solo a commiserarsi, a ripercorrere più o meno meccanicamente ogni passo, ogni momento condiviso; le frasi dette, non dette; i sacrifici fatti o, peggio, richiesti. Ma conservare ogni oggetto, o semplicemente ogni ricordo, non ha nulla a che fare con le persone che se ne vanno e forse serve solo a trasformarle in una funzione di noi stessi. Da non molto tempo ho realizzato che il miglior modo per onorare chi non c'è è lasciare che la sua vita, anche se è finita, continui ad essere la sua, come lo è sempre stata. Questo libro è per John e Quintana. Mettere una distanza e lasciare che sia l'amore, non l'ossessione, a colmarla. E vivere.

Sulla copertina del libro c'è un grosso girasole secco. Pochi minuti fa ho capito davvero quanto appropriata sia questa immagine: forse è un girasole sopravvissuto. E' secco, ma non meno bello o luminoso. E' un girasole che è andato avanti.

Grazie dunque, carissima Joan Didion, oggi era il nostro kairos.

martedì 23 marzo 2010

Tassonom(an)ie

Vado pazzo per le categorie. Nella mia vita ho fatto classificazioni di ogni tipo, che un monaco medioevale in confronto è un pivello che colleziona figurine (dei santi?) senza finire l'album. Provo un gusto particolare nel suddividere, raggruppare, riconoscere in un dato elemento (sia esso una persona o un oggetto) una caratteristica e metterla a sistema con altre. Creare un tipo. O stereotipo, qualcuno direbbe.


La cosa bella delle tassonomie non è il presunto ordine che producono, ma il potere che hanno di abituarti ai rimandi, di predisporti alla diagnosi, all'intuito. Forse, sarei stato un buon medico, o magari semplicemente un filippino che legge finte budella. In ogni caso, la mia furia ordinatrice vi avrebbe fatti combaciare tutti perfettamente con la vostra casella (leggasi aggiungendo risata malefica alla mago di Oz).

Lungi da me incappare in pericolose derive ideologiche, lombrosianamente giudicanti. Mi piace solo guardare e dire a me stesso "questa l'ho già vista". Per esempio, avete mai fatto caso che di solito chi ha il naso adunco ha anche il mento pronunciato? E magari i denti lievemente rivolti all'interno della bocca? E magari gli occhi tondi?
E avete notato come un certo tipo di mascella pronunciata sia spesso accoppiata ad un naso troppo piccolo? O come le donne con gambe bellissime spesso abbiano il sedere lievemente appiattito?
Non penso di dire nulla di nuovo: una volta ho letto che la donna con seno abbondante, sedere piatto e gambe belle è una 'donna-mela', mentre quella fatta a botticella è una 'donna-pera'. E l'altra frutta? Dove sta l'altra frutta? Io voglio trovarla.


Le classificazioni non dovrebbero conoscere pregiudizi o regole estetiche, non sono bon ton. Ho fatto una classificazione molto appagante sulle varie tipologie di brufoli, stilando una serie di caratteristiche e di possibili terapie specifiche (anni di esperienza...), ed anche una molto vera (per me) sulla fragranza dei sudori: mica esiste solo il sudore alla cipolla? Ci sono anche brodo, olive nere e muffa.
Ammetto che sto offrendo il destro per una diagnosi di sidrome ossessivo-compulsiva, ma ciò che voglio dire è che non è detto che cercare un senso, una rete di connessioni nella realtà che ci circonda, sia necessariamente un pregiudizio. Certo, est modus in rebus: preferisco essere in odore di compulsività che diventare direttamente A beautiful mind. Sarebbe troppo.


In ogni caso, parafrasando Wilde, mi verrebbe da dire che "solo le persone superficiali non classificano dalle apparenze". E solo le persone superficiali si fermano alla prima, grossolana, classificazione.

venerdì 19 marzo 2010

Rice to meet you

A dispetto del fatto che oggi è venerdì, e "né di Venere né di Marte non si sposa né si parte, non si dà principio all'arte" apro il sipario sul mio blog. Noblesse O-blog è il titolo, per l'esattezza. Non so ancora se sarà un atto unico o un dramma greco sui generis, con parodo, prologo, e non si sa quanti episodi, ma so che inizia oggi e ogni viaggio inaugurale merita di avere infranta su di sé una bottiglia non dico del miglior champagne, ma quantomeno di un prosecchino che non faccia acidità.

Il Dictionnaire de l'Académie Française chiarisce così il significato di noblesse oblige:

1. Chiunque dichiari di essere nobile deve comportarsi in modo nobile
2. Si deve agire in modo da conformarsi alla posizione e alla reputazione
che ci si è guadagnati
Per questo: Noblesse O-blog. Perché dai, parliamoci chiaro: ad un certo punto tocca prendersi la responsabilità dei propri desideri, tocca agire secondo la reputazione che uno ha con se stesso.
Non so ancora se anche Voi (o Tu, o nessuno, più probabilmente) "andrete a nozze" con ciò che scriverò, ma so che oggi, proprio oggi, io sp-OSO e guadagno a me stesso il diritto di un inizio. Perché, come diceva Goethe:

Qualunque cosa tu voglia fare, o sognare di fare, incominciala.
Incominciala adesso. L'audacia ha in sé genio, potere e magia
Dunque, benvenute/i! Benvenute/i tra opinioni, racconti e, spero, verità. E tanto tanto tanto riso benaugurale a tutti.